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JOHN GARFIELD
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                                                               THE CLASSIC CORNER  

 

                                                                                    I DIMENTICATI

 

                                                                    JOHN GARFIELD

 

                                                      

 

 

Provo un senso di imbarazzo nel citare Garfield tra i dimenticati. Dimenticati? Ma scherziamo? Eppure, se chiedessimo all’uomo della strada chi fosse, ci sentiremmo rispondere, con altissima probabilità, che forse è il nome di un pupazzetto, o forse un calciatore inglese o chissà cos’altro. Un po' come se chiedessimo agli studenti chi fosse Pietro Badoglio, visto che non molto tempo fa (1994), le risposte non lasciavano dubbi: non lo sapevano. Forse erano gli stessi che non sapevano il motivo dell’alternarsi del giorno e della notte, ma entreremmo in un discorso che ci porterebbe troppo lontano…

Perché parlare, o meglio, ricordare John Garfield? La prima risposta, istintiva, è quella di mandare gli interlocutori alla malora. Ma come? Stiamo parlando di cinema e si deve parlare di lui, per evitare che cada nel dimenticatoio? Certo, “il male che l’uomo fa gli sopravvive, mentre il bene giace con lui nella tomba (GIULIO CESARE, Shakespeare)”; il male che ci sopravvive è dimenticare il passato, al punto che, prima o poi, lo rivivremo. Con che faccia diremo candidamente di amare il cinema e non avremo il pudore di ammettere che non ne sappiamo nulla?

I soliti tromboni pseudo-intellettuali, presuntuosi e insopportabili, diranno che non conta tanto sapere i nomi, ma conoscere l’essenza dell’arte cinematografica che trascende nomi, biografie, divi e così via.  Balle! Smettiamola di farci infinocchiare con queste scemenze. Lasciamo che certi cosiddetti studiosi di cinema ammuffiscano tra cataste di libri, intenti a discettare su assurde teorie estetiche fini a sé stesse, e cerchiamo piuttosto di avvicinarci al mondo Garfield.

 

                                                                           

Se non avete mai visto film come C’E’ SEMPRE UN DOMANI (The Pride of the Marines, 1945), IL POSTINO SUONA SEMPRE DUE VOLTE (The Postman always rings twice, 1046) ANIMA E CORPO (Body and Soul, 1947), LE FORZE DEL MALE (Force of Evil, 1948), GOLFO DEL MESSICO (The Breaking Point, 1950) o altri, vi compiango dal profondo del cuore, veramente. Scherzo, ovviamente, ma non andate in giro a dire che amate il cinema… se non avete visto niente di John Garfield, avete delle lacune gravi. Se avete meno di quarant’anni siete scusati o quasi, ma se ne avete di più, meritate un fracco di legnate (virtuali, chiaro).

Forse io di cinema so poco o nulla, lo confesso. Ma ho il difetto di vivere ciò che amo con passione. Senza la passione non si può amare il cinema, così come senza il senso del gusto non si può amare il cibo…mi spiace per gli anglo-sassoni che vivono il cibo come necessità: non c’è nulla di peggio che mangiare per necessità. E’ un po' come fare l’amore, se non c’è passione, amore, ma che senso ha?

Ho cominciato ad amare Garfield da ragazzino. Vedevo in tv i suoi film e ne andavo matto. Allora non c’era possibilità di comprare dvd o peggio ancora VHS con i suoi film. Ci accontentavamo di ciò che passava mamma RAI.  Ciò che mi piaceva di lui era il tritolo che aveva in corpo, una sorta di energia nucleare tenuta costantemente a freno, ma sempre in procinto di esplodere. “Sapete cosa vi dico? Vi strappo le budella e vi ci impicco” scatta improvvisamente il protagonista in GOLFO DEL MESSICO. Oggi sentiamo continuamente in tanti, pessimi film frasi ancora più tremende. Tutte frasi che ormai fanno solo sorridere. Si gratta il fondo del barile per trovare quello che fa più effetto. Segno di debolezza, o di scarso talento.

 

                                                                  

A John Garfield non mancava il talento, anzi, ne aveva da vendere. Non so se avrebbe fatto carriera nella vita in altri campi, ma certo è che il cinema trovò in lui un interprete fuori del comune. I suoi genitori erano contadini ucraini emigrati che si erano stabiliti nel Lower East Side, un quartiere povero di New York, dove nasce nel 1913, abitato soprattutto da immigrati dall’Europa orientale. Sembra una meta tra le più ambite, per coloro che provengono da quelle parti, trasferirsi poi a Hollywood (Goldwyn, Warner, Louis Mayer solo tra i produttori). Suo padre era un ebreo severo, ignorante e, come lo ricorda John, un fanatico religioso. Sua madre muore quando John ha 7 anni e lascia il marito con due figli. Era, a quanto pare, buona e affettuosa e questo sicuramente riusciva a temperare l’inflessibilità paterna, evitandogli presumibilmente molte sberle e bastonate. Dopo la sua morte, il padre si trasferisce a Brooklyn e, non essendo in grado di badare ai figli, li lascia a dei parenti perché li crescano. John, che tutti chiamano Jules (non chiedetemi perché), impara la vita di strada, fa a pugni, fa parte di gang, furtarelli ecc. A scuola va male, ma a salvarlo viene un angelo… Ma no, che avete capito, un certo Angelo Patri, un italiano anch’egli immigrato, che nel quartiere gode di certo prestigio perché, da povero in canna qual era, ha studiato, sgobbato ed è diventato insegnante in una scuola pubblica. Poi, poco a poco diventerà un ottimo pedagogo, si ispirerà alle teorie di John Dewey e godrà di grande prestigio internazionale. In lui, Angelo vede della stoffa. Incanalerà la sua rabbia facendogli tirare di boxe (ricordate Jake La Motta? Stessa estrazione sociale, stesse esperienze di strada), ma soprattutto, notate le sue capacità istrioniche (pare che fosse il beniamino dei suoi compagnucci, per l’abilità di farli ridere con le sue imitazioni e le sue improvvisazioni), gli fa ottenere una borsa di studio (per la quale si impegna ed ottiene buoni voti a scuola) presso la Heckscher Foundation. Impara così i fondamenti della recitazione alla scuola di Maria Ouspenskaya (l’attrice che importò dalla Russia il metodo Stanislavsky e che ebbe tra i suoi allievi Lee Strasberg) e ti pare poco.

A 17 anni, comincia a recitare in piccoli ruoli teatrali, poi, preso da non so quale demone, molla tutto e comincia a girovagare per il Paese, viaggiando a sbafo su treni merci. Poi, forse per stanchezza e forse perché incontra spesso sui treni dei tipacci come Shack, l’energumeno interpretato da Ernst Borgnine, di L’IMPERATORE DEL NORD (Emperor of the North Pole, 1973) di Bob Aldrich, decide che è meglio tornare a casa.

 

Qui, dopo qualche anno di gavetta, riesce ad unirsi alla compagnia di avanguardia del Theater Group. Conosce così gente come Clifford Odets (uno dei migliori sceneggiatori di allora), Morris Carnovsky, Stella e Lou Adler ed Elia Kazan. Non ditemi che non conoscete almeno Kazan, perché allora sono io che mollo tutto e me ne vado sui treni merci in giro per il Paese. Tutto sembrava andar bene fino a quando gli viene soffiato il ruolo a cui teneva molto e che era stato scritto apposta per lui da Odets. Questi, tra l’altro, aveva conosciuto Garfield  quando viveva a nel Bronx e, intuendo le sue capacità lo fece entrare nella Compagnia. Odets, tra l’altro era un tipo versatile: buone letture, grande passione per la musica, drammaturgo notevole. Garfield sapeva fare solo l’attore ed era il suo cruccio: invidiava le persone colte. Odets gli sarà sempre vicino e lo aiuterà nella sua carriera, nel bene e nel male. Un sodalizio sano, fruttuoso e duraturo. Un’amicizia che rischia di rompersi quando Odets, come si è detto, scrive un dramma concepito proprio per le caratteristiche di Garfield. Il titolo del dramma è GOLDEN BOY. A Garfield piace immensamente. E’ la storia di un pugile che sceglie il successo e il denaro a scapito dei sentimenti. (non è forse la storia di ANIMA E CORPO o  di IL GRANDE COLTELLO (The Big Knife 1955) scritto  dallo stesso Odets?). Tutto sembrava fatto, invece, ad un certo punto, Harold Clurman, uno dei fondatori della Compagnia, decide di affidare il ruolo a Luther Adler, nonostante le proteste di Cliff, (e a ragione). Il ruolo gli calzava a pennello ed era quello che poi avrebbe recitato in diversi film a Hollywood. Tra l’altro, come ricorda, Gelman, la parte non si addiceva molto ad Adler, troppo tenero, educato e “bello” per un pugile. Per Clurman, Garfield era troppo inesperto, non abbastanza maturo per il ruolo. Adler fornì un’interpretazione professionale, “conservatrice”. Garfield, per la prima volta da quando è nella Compagnia, rimane deluso, molto deluso.

Incazzato nero, molla tutto (di nuovo) e se ne va a Hollywood. A quel tempo Hollywood era considerata un po' una sorta di antitesi volgare rispetto al teatro, ma il buono era che si poteva fare molta grana (per i pochi che ci riuscivano). Quando si reca a Hollywood, lo fa solo per poter dopo un po' tornare al teatro. Si sente un attore di teatro. Alloggia in una pensione di Hollywood e lascia moglie e figlio a New York: tanto, tornerà presto al teatro.

Per dare una pallida idea di chi fosse Garfield, vorrei riportare due o tre cose che Abraham Polonsky, un altro figlio di immigrati russi ebrei, ottimo sceneggiatore e regista, scrive nell’introduzione del libro THE FILMS OF JOHN GARFIELD, di Howard Gelman, The Citadel Press, 1975, Secaucus, New Jersey: […] “Come attore, G. era il prediletto dei ribelli romantici- bello, entusiasta, ricco di quella conoscenza che ti dà l’intelligenza della strada. Aveva la passione e una tristezza lirica che era l’essenza del ruolo che creava come se fosse creato apposta per lui. Nella tragedia isterica in cui si venne a trovare, diventò un esule nel suo stesso paese. Che altri prima di lui ed altri dopo di lui, in ogni epoca, recitassero lo stesso ruolo, non era per lui soddisfacente. Era ambizioso. Il Group [Theater] lo formò, il cinema lo perfezionò, la Lista Nera lo uccise.”

 

                                                                         

Già, la Lista Nera, la sbronza anti-comunista degli anni’40 e ’50 a Hollyood (e non solo). La Lista che rovinò artisti, registi, scrittori, produttori: un vero disastro che privò il cinema di alcune delle menti più geniali e di potenziali capolavori. Ma di questo ne parleremo più avanti.

Il metodo Stanislavsky (approfondimento psicologico del personaggio e ricerca di punti comuni tra il personaggio e l’attore, così che il personaggio viene in certo modo “interpretato” e rielaborato intimamente dall’attore) lo aiuta molto nel suo approdo al cinema. Le sue interpretazioni sono convincenti al punto che molta critica vede in lui una specie di prototipo di stile recitativo su cui si sono “costruiti” attori come (Marlon Brando e James Dean, ma anche, in modo meno evidente, Paul Newman e Monty Clift).

A Hollywood però accade qualcosa di inaspettato: il suo primo film, QUATTRO FIGLIE Four Daughters (1938), va a gonfie vele e corre addirittura per l’Oscar. La sua interpretazione di Mickey colpisce nel segno. Il marchio del bel tenebroso e scavezzacollo gli resta incollato per lungo tempo. Allora a Hollywood, la prassi era che se un prodotto andava bene, lo Studio ne faceva una specie di marchio, da cui era difficile staccarsi. Garfield, dopo un po' si era stancato dei soliti ruoli e avrebbe voluto interpretarne altri e inoltre non accettava di recitare in film, secondo lui, di scarsa qualità. Per circa una dozzina di volte il suo comportamento gli valse la sospensione del contratto. La Warner però gli concede, quando non è impegnato, di trasferirsi a New York, temporaneamente, a recitare in teatro, cosa che, visti gli impegni, fa molto di rado.

QUATTRO FIGLIE si salva dalla mediocrità (e dalla melassa sentimentale insopportabile) grazie a tre motivi: il regista, Michael Curtiz, riesce a ottenere dagli attori il meglio, la sceneggiatura (fra gli altri di Julius Epstein, un nome che vi raccomando: le commedie più argute e brillanti di Hollywood portano in buona parte il suo nome) e Garfield. Curtiz manterrà un rapporto speciale con John, che si concreterà con altri buoni film come FOUR WIVES (1939) sempre con Epstein, IL LUPO DEI MARI (The Sea Wolf, 1941) e soprattutto GOLFO DEL MESSICO (1950) suo penultimo film. Inutile ricordare chi è Michael Curtiz, basterebbe fare un nome: CASABLANCA, ok? E’ già detto tutto. Un altro regista con cui stabilisce un sodalizio importante è Robert Rossen, che aveva scritto IL LUPO DEI MARI, il regista appunto di ANIMA E CORPO ( Body and Soul, 1947). La sceneggiatura è di Polonsky, che lo dirigerà l’anno dopo in LE FORZE DEL MALE. Il film consacra la maturità artistica di Garfield, considerato ormai una vera “star”.

Con lo scoppio della guerra, anche Garfield viene chiamato a dare il suo contributo cinematografico e parliamo soprattutto di ARCIPELAGO IN FIAMME (Air Force, 1943, Howard Hawks) e di C’E’ SEMPRE UN DOMANI (The Pride of the Marines, 1945, Delmer Daves).

 

Servirebbe un volume intero per parlare delle implicazioni sociali connesse con questi due film. Tutti gli studios vennero chiamati a sostenere lo sforzo bellico con la specificità dei loro mezzi: film, discorsi alla radio, supporto ed intrattenimento alle truppe attraverso l’invio oltremare delle star più amate ecc. Il messaggio che doveva “passare” era quello di condanna dell’atteggiamento egoistico, dell’indifferenza, del non far nulla davanti a ciò che stava succedendo nel Pacifico e in Europa. Nei film, ad esempio, si doveva rimarcare la “conversione” del protagonista da individuo indifferente ed egoista a patriota deciso a sostenere, anche a prezzo della propria vita, l’impegno bellico.

Suggerisco di leggere, a tal proposito, l’illuminante articolo di Dana Polan, BLIND INSIGHTS AND DARK PASSAGES, pubblicato sulla rivista THE VELVET LIGHT TRAP, n.20, Madison, Wisconsin, estate 1983. Soprattutto per quanto riguarda il secondo film, gli sceneggiatori Martin Borowsky e Albert Maltz, riuscirono nell’intento di scrivere un “doppio” film e cioè proporre una prima lettura tradizionale, facilmente comprensibile per il grande pubblico e un’altra, ben più sottile, accessibile solo agli spettatori più attenti. L’ideologia alla base di questo film e di tanti altri (diciamo un esempio per tutti: CASABLANCA, 1942, Michael Curtiz) è quanto detto prima e cioè quella dell’impegno Per impegno, molti scrittori non si riferivano solo alla “conversione” e cioè all’impegno a sostenere lo sforzo bellico, ma anche quello sociale, e cioè un maggior coinvolgimento nella vita politica, nella lotta di classe.

 Finita la guerra, Garfield, terminato il contratto con la Warner Bros., decide di dar vita a una nuova casa di produzione indipendente, la Enterprise. Prima però, accetta di interpretare per la Metro Goldwyn Mayer IL POSTINO SUONA SEMPRE DUE VOLTE (1946), film che gli dà la consacrazione a vero divo del cinema. Il primo progetto della Enterprise è ANIMA E CORPO, scritto da Polonsky e diretto da Robert Rossen, con l’interpretazione di John e di Anne Revere, tutti finiti sulla Black List o Lista Nera, elenco di personaggi dello spettacolo sospettati di collusione, simpatia o collaborazione con il movimento comunista. Se i sospettati accettavano di collaborare con la HUAC, spifferando nomi di amici o conoscenti in odore di filo-comunismo, diventavano testimoni amici, altrimenti erano definiti “ostili”.

 

E qui veniamo al punto. Albert Maltz, come si è detto, scrive la sceneggiatura di C’E’ SEMPRE UN DOMANI. Egli è uno degli scrittori più impegnati a Hollywood per quanto riguarda i temi sociali.  Com’era logico aspettarsi, cadde nella rete tesa dalla HUAC (House of Un-americanAcrivities Committee), un comitato della Camera dei Rappresentanti creato nel 1938 per investigare su presunte attività sovversive messe in atto da privati cittadini, impiegati pubblici ed organismi sospettati di avere legami con i comunisti. Maltz, autore, oltre che di teatro e romanzi, di grandi scripts, come ad esempio, IL FUORILEGGE (This Gun for Hire, 1942, di Frank Tuttle, DESTINAZIONE TOKYO (Destination Tokyo, 1943, Delmer Daves, MASCHERE  E PUGNALI (Cloak and Dagger, 1946, Fritz Lang)LA CITTA’ NUDA (The Naked City, 1948, Jules Dassin), L’AMANTE INDIANA (Broken Arrow, 1950, Delmer Daves ed altri), era uno dei “Dieci di Hollywood”, e cioè il gruppo di scrittori, registi e produttori che la Commissione per le attività antiamericane del 1947 (tra cui spiccava Richard Nixon) aveva, dopo averli interrogati come “testimoni ostili” e cioè non collaborativi,  condannato per vilipendio del Parlamento. La Corte Suprema poi, chiamata in causa dai Dieci, rincarò la dose e li condannò a un anno di reclusione e a mille dollari di multa. Tra questi Dieci, figuravano grandi nomi quali Lester Cole, Herbert Biberman, Edward Dmytryk, Adrian Scott e Dalton Trumbo.

Per conoscere più a fondo questa vicenda amarissima, consiglio di leggere il prezioso volumetto di Giuliana Muscio, Lista nera a Hollywood, 1979, Feltrinelli, Milano.

 

John Garfield entra in questa storia quando, per il suo passato al Goup Theatre e per il suo netto rifiuto di collaborare con l’HUAC, cadde presto in disgrazia. Ciò lo teneva in grande apprensione per i guai che poteva subire la sua carriera. Interrogato dalla Commissione, dichiarò di non essere membro del partito comunista e di aver partecipato ad attività di gruppi vicini al partito solo perché amava il suo Paese e che comunque la sua carriera e i suoi film dimostravano il suo anticomunismo. Andò oltre, e questo gli arrecò più danni che benefici, giurando di non conoscere un solo comunista in tutta Hollywood ed esagerò addirittura quando, poiché gli fu esposta una lista di nomi, auspicò addirittura che quel partito fosse messo fuori legge. La sua testimonianza non convinse la Commissione, intenzionata a richiamarlo per ulteriori chiarimenti. La notizia che Kazan e Odets avevano cominciato a fare nomi, l’angoscia di rischiare di dover abbandonare la carriera e finire addirittura in carcere e altro, furono alcuni dei motivi per i quali il suo cuore non resse e la mattina del 21 maggio 1952 un infarto lo portò via per sempre.

Non aveva ancora quarant’anni. L’America che amiamo per il suo cinema, letteratura, musica, per la sua vitalità, per la sua sete di libertà, per i suoi enormi spazi, le sue praterie, le sue strade infinite e rette, ha perso uno dei suoi uomini migliori, figlio di migranti fuggiti dall’odio e dalla miseria alla ricerca di un mondo e di una vita migliori, in tutti i sensi.

 

Ci sono sempre due Patrie nei grandi Paesi, una in lotta con l’altra: l’Italia marcata dal solco del 1943 che ha diviso e continua a dividere, le due Spagne, di cui una muore e l’altra sbadiglia, la Germania di coloro che amano sinceramente la democrazia e la libertà e quella invece che, ogni tanto, si risveglia dal sepolcro della storia e torna a volteggiare sul nostro mondo e infine l’America, “My Home, Sweet Home”, di chi lotta per i diritti civili, di chi ci fa impazzire per la forza delle sue giovani generazioni in perenne contrasto con i Blacklisters, quelli dell’American Legion, del Ku Klux Klan, dei guerrafondai disposti ad incendiare il mondo pur di riproporre il mito dell’America First. E il guaio peggiore è che metà della popolazione ci crede. “God bless America”, certo, ma quale America?

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