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Morte di un amico

Regia di Franco Rossi vedi scheda film

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La recensione su Morte di un amico

di spopola
6 stelle

Tante buone intenzioni disseminate qua e la, ma che avrebbero avuto bisogno di un amalgama più rigoroso, di una mano più salda e meno prudente, capace di definire una coerente via da seguire e di mantenere poi la giusta velocità di percorso, così da mostrare davvero la faccia violenta di “quella vita” e di “quel mondo”. .

Il debutto alla regia di Pasolini (con lo straordinario “Accattone”) è del 1961, ma il suo avvicinamento progressivo al cinema (come soggettista e/o sceneggiatore, e poi anche come attore ne “Il gobbo” di Lizzani, che rappresentò per lui un’ottima esperienza per verificare dall’interno i meccanismi operativi del nuovo “mestiere”che di lì a poco si sarebbe apprestato ad intraprendere) era iniziato qualche tempo prima (e il 1959 è certamente l’anno più fruttuoso come “impegno e risultato”, poiché è proprio in quella data che si concretizza la collaborazione con  Bolognini  per “La notte brava” (per il quale “lavorerà” ancora l’anno successivo, unitamente a Marco Visconti e Alberto Moravia e con esiti certamente meno interessanti, ma solo a causa dell’eccessivo formalismo della regia che di nuovo tornò ad essere preponderante, per “La giornata balorda”, una rielaborazione coordinata in una trama organica, di alcuni spunti presi da “Racconti romani” e “Nuovi racconti romani” dello stesso Moravia).

Ancora del 1959, è di Pasolini il soggetto (scritto  con Giuseppe Berto e Oreste Biancoli) di questo “Morte di un amico”, che forse però mi sembra - fra tutti - sia quello che approda a un risultato finale meno in sintonia con la sua poetica.  L’universo è ancora quello dell’emarginazione (il sottoproletariato delle borgate romane) così ben messo a  fuoco nei  suoi romanzi di quel periodo (“Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”) che gli avevano assicurato, insieme alla notorietà e al successo,  anche l’ostracismo “ad oltranza” del clericalismo demofascista così virulento e implacabile nel “mettere all’indice” la non ortodossia dello scrittore friulano,  all’epoca “innamorato” e critico cantore di quel sottobosco “colorato” e vivo che rimarrà il costante centro della sua attenzione e del suo interesse, e non solo per ragioni di carattere antropologico, fino al tragico epilogo della sua vita. Un mondo dunque “esplorato” con inusitata “passione” anche conoscitiva, che costituirà la fonte  più cospicua (per la sua attività di quegli anni e non solo) della sua ispirazione creativa, fra “papponi” e puttane (che  ritroveremo anche, immersi però in una luce fortemente umanizzata che li renderà diversi da tutto ciò che era stato raccontato prima, sia in  “Accattone” che in “Mamma Roma”) che già avevano accompagnato in maniera insolitamente “provocatoria”, anche il suo lavoro di “paroliere” (si fa per dire, perché era certamente molto di più e di meglio ciò che Pasolini ha espresso anche in questo campo) per gli spettacoli “contro” di Laura Betti (come si chiamavano? “Giro a vuoto n° 1” e “Giro a vuoto n° 2”se non vado errato), e non solo la più conosciuta “Il valzer della toppa” ripresa poi anche da Gabriella Ferri, ma proprio quella straordinaria “composizione anomala” che si chiama “Macrì Teresa detta pazzia”,  che abita a via del Mandrione alla baracca 23, “batte” a Caracalla e finirà alle Mantellate per reticenza ed esercizio abusivo della professione, ma non denuncerà il suo magnaccia, nonostante le pressioni, preoccupata semmai di cosa gli potrà succedere adesso che lei non sarà più in grado di “procurargli il grano”. Un pezzo - musicato (se non ricordo male, perché vado a memoria) - da un Umiliani in stato di grazia, dissonante, estremo, pieno di sobbalzi che assomigliano a dilacerate urla, che  definire “canzone” è limitativo, poiché è “racconto” perfettamente compiuto, sviluppato come un interrogatorio al commissariato – “pretestuosamente” utilizzato per descrivere una vita di sfruttamento piena di rabbia provocatoria,  di dedizione e di “umana sofferenza” - di una puttana che è anche donna indomitamente e “caparbiamente” innamorata e che a “nessun costo” è disponibile a tradire quello che a tutti gli effetti considera  “il suo uomo” (“none.. none… nu’no ‘o dico er nome… er nome suo nunn’o ricordo… se chiama ammore… e basta”).

Ecco, il parallelo più diretto dell’ambientazione di “Morte di un amico” è proprio con il degradato mondo “disegnato “ in questo brano, eppure alla fine, se non in alcuni spunti “paralleli”, il risultato è molto divergente (anche dall’esito positivo del Bolognini de “La notte brava”… e qui sappiamo tutti però che il merito, come è chiaramente evidente dal prosieguo della sua carriera, è principalmente attribuibile proprio alla mano dello scrittore, che è poi quello che in effetti tiene davvero “le fila” e “detta” le condizioni).

 Dunque, analogo il contesto e l’aria che vi si respira - poiché indubbiamente anche il film di Franco Rossi ha un soggetto forte - poi però già in parte edulcorato (anche per evidenti necessità di “alleggerimento” dovuto a ragioni di natura censoria) da una sceneggiatura molto meno graffiante e “diretta” – diciamo fortemente addomesticata – che non vede per altro più il nome di Pasolini fra gli esecutori materiali del lavoro, ma bensì una triade composta dallo stesso Rossi, coadiuvato da Ugo Guerra e F. Riganti, probabilmente più disponibili ad “ammorbidire i toni”, il che nuoce fortemente all’esito finale, che rimane indubbiamente dignitoso, ma non va davvero molto oltre. Ancora una vicenda di puttane e magnaccia, allora, uno “spaccato” a suo modo crudele sulle borgate romane, ma anche una storia di  amicizia (che poi è alla fine il tema che prevale, quello che forse sta più a cuore al regista, quello con il quale si sente maggiormente in sintonia, poiché già da lui sviluppato, sia pure con differenti modalità, anche con il precedente “Amici per la pelle” del 1955).

Sembra quasi che nel procedere, Rossi alla fine trovi più affinità, anziché con il mondo Pasoliniano, come il soggetto dovrebbe suggerire, con la poetica “esistenziale” di un altro scrittore fondamentale del ‘900, e più esattamente Pratolini e il suo  “Un eroe del nostro tempo”, con il quale questo film ha a mio avviso singolari e molteplici punti di contatto (anche se con una profondità concettuale e critica di minore rilevanza).

Non ricordo quale fu alla sua uscita l’esito “commerciale” della pellicola, ma so per certo che non ebbe al momento un significativo battage pubblicitario, perché poteva contare come elemento di spicco, solo sul nome di Pasolini (una “scelta” obbligata il suo inserimento nel progetto?), non certo sulla notorietà  del regista, ancora alle prime armi, né tantomeno su quella dei suoi interpreti, all’epoca tutti giovani  di “belle speranze”, ma perfetti sconosciuti, come i due protagonisti, Gianni Garko e Spiros Focas,  e la triade femminile contrapposta (Didi Perego, in uno dei rari ruoli da protagonista, Angela Luce e Anna Mazzucchelli), un cast che risultò comunque particolarmente azzeccato e straordinariamente aderente (anche fisicamente parlando), perfettamente adeguato a restituire la psicologia  “tipicizzata” dei vari personaggi assegnati). Ricordo invece che se ne parlò moltissimo durante la “gestazione”,  quando erano ancora in corso le selezioni per definire i titoli italiani da inserire nella competizione della Mostra di Venezia di quell’anno (ancora in virtù del nome già “maudit” di Pasolini, da solo capace di “risvegliare” pruriti e aspettative, anche in posizione così marginale). Il titolo infatti fu a lungo “chiacchierato” come probabile outsider  per il concorso... ma poi ovviamente all’atto pratico non se ne fece di nulla,  non certo però per un giudizio di natura estetica: le ragioni, furono indubbiamente altre, e tutte “moralistiche” e “bacchettone”, perché già la censura preventiva ci andò giù pesante, negando per “oscenità” il visto in prima istanza, e impedendo così di fatto, non solo la partecipazione all’evento, ma anche la regolare uscita in sala nei tempi previsti, uno “slittamento prolungato” che poté concludersi soltanto successivamente (1960), e grazie a una battaglia  accesa e prolungata - come solo a quei tempi era possibile orchestrare e portare a termine con esiti (quasi) totalmente vittoriosi (che nostalgia!!!). Fu infatti il ricorso in appello a dare il beneplacito (ma non ho notizie se per questo “viatico” si resero necessari ulteriori aggiustamenti e “concessioni” in corso d’opera, il che non sarebbe certo un fatto straordinario). Resta la circostanza curiosa (ma comprensibilissima, visti i tempi e la mentalità retriva) di una evidente “persecuzione” a prescindere, perché  - e chi lo ha visto sa di cosa parlo - non c’è proprio niente, al di là della “presunta” (pretestuosa direi) scabrosità del tema, nemmeno nel soggetto, che potrebbe (o che poteva) offendere in qualche modo la morale e le coscienze (o il comune senso del pudore, come si dice in questi casi) di “ignari” spettatori ipersensibili.

Per reazione opposta allora (succedeva spesso per pellicole che avevano subito queste ingiustificate “momentanee”messe al bando a causa di un aberrante “bacchettonismo” anche istituzionale) il giudizio critico fu  più positivo degli effettivi meriti dell’opera, e  certamente questo giovò al film e  al suo regista, ma resta acclarato in ogni caso che, anche se le intenzioni erano certamente buone, i risultati a cui si approdò, proprio al di là di qualche troppo “facile” entusiasmo del momento, furono abbastanza modesti  pur se a fronte di un lavoro impostato  seriamente, ma – purtroppo - solo parzialmente risolto.

Un “riesame” aggiornato della pellicola, fa proprio individuare nel mancato “coraggio” di Rossi il difetto maggiore che inficia fortemente lìesito,  perché tutto rimane limitato a una enunciazione in superficie: se è indubbio che anche lui, indagando  nello squallido sottoproletariato romano cerca di affrontare dall’interno le problematiche di quel desolante  campionario umano, non ha poi la forza di “andare fino in fondo”,  ed è allora proprio il tratteggio psicologico dei due personaggi principali,  quello appunto dei “papponi” Bruno e Aldo, i due amici che occhieggiano dal titolo, a non convincere: sono due sfruttatori di donna, due magnaccia (facenti parte insomma di una delle categorie fra le più ripugnanti), ma la storia, così come è realizzata, non ce ne fa percepire la “sgradevolezza”, anche se non intende nemmeno esaltarli: si limita “solo” ad osservarli con una specie di “magnanima benevolenza”. Si avverte insomma il fermo desiderio di non voler esprimere una condanna senza appello, schematizzando  “rigidamente il “negativismo” moralista della professione, ma è altrettanto lontanissima, per contro, anche  la strada imboccata da Bolognini che ce li raccontava puntando invece sulla loro vitalità canagliesca ma simpatica, la loro gioventù la loro “disponibilità” ad osare, magari sempre male  impiegata, ma comunque a un passo da un ipotetico possibile e un pò “miracolistico” recupero alla decenza. Rossi si può dire che li osserva tentando “semplicemente” di trovare e mettere in evidenza quel poco che resta  di una dignità umana quasi del tutto perduta (le circostanze e l’ambiente però ne sono la causa diretta o indiretta, perché  il “cuore” c’è, ed è ancora vivo e pulsante, sia pure sotto una pesante coltre  di cinismo e di inconscia durezza). Purtroppo tale richiamo ai buoni sentimenti, anche se per certi aspetti può apparire in sé più lodevole delle divagazioni estetizzanti e delle ribellioni  a sua volta leggermente autocompiaciute e vagamente “guasconi” del Bolognini per come traspaiono  fra “bravate notturne” e giornate  balordamente inconsistenti”, non rappresenta una evoluzione, né un passo avanti (né tantomeno una angolazione di “lettura” insolita e un po’ anomala) poiché l’analisi si “ferma”… si arena, sarebbe meglio dire, semplicemente davanti alla “scoperta” (si potrebbe definire dell’acqua calda) quasi “ineluttabile”  che  in fondo la bontà resiste, non viene cancellata  dalle sciagurate esperienze  e dalle durezze della vita (un po’ alla maniera di Carné che in fondo nei sui quasi contemporanei “Peccatori in blues jeans” non arrivava a conclusioni molto diverse). Nasce forse proprio da tutto questo un vago senso di disagio quasi di “accettazione rassegnata” o meglio un anelare – magari inconscio - a una specie  di possibile riscatto quasi utopico nella mediocrità borghese e nel recupero dei suoi ideali ugualmente aberranti. E questo “conformismo ideologico”, oggi più che allora, fa apparire il film vecchio, scontato, privo della capacità di aggredire le coscienze e di metterle nella posizione di ragionare “criticamente” e di esprimere, se non un giudizio, per lo meno una “posizione”. Si possono quindi facilmente  stigmatizzare fra i vari fraintendimenti un poco qualunquistici, l’insufficiente rilievo che assumono, nei tentativi di uno dei  protagonisti di trovare un lavoro onesto, le autentiche connessioni fra il sottoproletariato di cui lui indubbiamente fa parte, e la società di riferimento,  o la mancanza di ogni  accenno al clima socio-ideologico  in cui erano immersi  in quegli anni i giovani come Aldo e Bruno (così si chiamano i due “amici”), e sono difetti (o limiti) non di poco conto, che “Morte di un amico”condivide con molti altri film dello stesso periodo, ma qui accentuati dal fatto che esiste anche un tentativo estremizzato (che diventa prioritario intento) di voler definire a tutti i costi  soprattutto “cos’è un’amicizia” fra individui di questo genere,  che però Rossi vede  e semplicizza, come un rapporto unilaterale, da succubo a dominatore, inesorabilmente staticizzato  e senza possibilità di risolversi in altro modo se non drammaticamente (come in effetti tragico sarà il finale). Ed è facile  cogliere allora in tale rapporto, l’abbozzo di una  ammissione quasi di impotenza, la confessione di  un senso di debolezza intima che si trasforma quasi in un sentimento di invidia per gli audaci e gli spregiudicati e di autocommiserazione per chi non è all’altezza, perché la soggezione di Aldo nei confronti di Bruno è qui un incontestabile dato di fatto, tanto che anche quello che in un certo senso può sembrare il rovesciamento della conclusione, appare meccanico, né più e né meno di come sembrano esserlo – paradossalmente – persino l’ambiente, e - al limite - anche la vicenda stessa (esterna, quasi pretestuosa, non adeguatamente “metabolizzata”, né tantomeno integrata dentro una problematica sociale che è comunque significativa e importante, viste le tematiche trattate). Unica, felice contraddizione (o “intuizione”), è il sicuro tratteggio delle due prostitute, Lea e Franca, che risultano essere davvero, a differenza degli uomini, le figure veramente autentiche della storia, senza nulla di inespresso o di stonato, per altro rese benissimo  da due (ancora) oscure attrici teatrali che solo successivamente, e a partire proprio da questo titolo avrebbero fatto valere le loro capacità anche in campo cinematografico, come la Perego e la Luce che contribuiscono con il loro estroverso talento  già pienamente  messo a fuoco, a rendercele in tutta la loro sfaccettata umanità non molto dissimile appunto da quella di Macrì Teresa.

Tante buone intenzioni  insomma disseminate qua e la, che avrebbero necessitato di un amalgama più rigoroso, forse  di una mano anche più salda e meno “prudente”, capace cioè di individuare e definire davvero una via da seguire, uniforme e coerente,  e di pigiare poi il pedale per mantenere la giusta velocità di percorso, così da mostrare davvero la faccia violenta di “quella vita” e di “quel mondo”, al di là del buonismo di facciata che traspare con troppo “fastidiosa” evidenza e che il finale rende ancor più “moralisticheggiante”.

 

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