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L'amore che resta

Regia di Gus Van Sant vedi scheda film

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La recensione su L'amore che resta

di ROTOTOM
8 stelle

E’ una sorpresa scovare un piccolo film di un grande regista, vittima come spesso accade dell’accanimento delle nostre distribuzioni sui titoli originali. Restless (trad: inquieto o letteralmente “senza riposo”) diventa – chissà perché -  L’amore che resta, titolo fuorviante che ammicca ai recenti retaggi di cinema italico di amorazzi da tinello e corna di trentenni in crisi.

Invece no, il film è di Gus Van Sant, uno che con gli adolescenti problematici ha scritto pagine di immenso cinema, e la storia è quella di due giovanissime anime sospese in una Portland eterea: Enoch (Henry Hopper, figlio talentuoso del grande Dennis)  ossessionato dalla morte che si imbuca ai funerali di perfetti sconosciuti e Annabelle (Mia Wasikowska) ammalata di tumore con ancora pochi mesi di vita.  Un tema sulla carta pesante ma filmato con la leggerezza di tocco della commedia sentimentale in perfetto equilibrio tra il tabù del tema e la narrazione, mai sopra le righe.

 Sono due spettri i ragazzi che imparano ad amarsi avendo già un comune bagaglio culturale  sulla morte. Due spettri più uno vero, Hiroshi, fantasma di un Kamikaze della seconda guerra mondiale che appare a Enoch e funge da guida e grillo parlante in un limbo senza tempo.  Delicatissima la messa in scena libera da qualsiasi retorica o ricerca della lacrima facile benché  la commozione sgorghi spontanea nel seguire Annabelle farsi largo per il tempo che le rimane attraverso la sua vita a termine fisso. Saggia e curiosa, entusiasta della vita, Annabelle riporta alla vita Enoch, ossessionato dalla morte e bloccato anch’egli, come il suo amico fantasma, in un tempo scandito dalla ripetizione di gesti e azioni dalle connotazioni fortemente simboliche. Disegnare la propria sagoma a terra, partecipare ai funerali di sconosciuti, prendere a martellate la lapide sotto la quale i genitori sono tumulati sono tentativi di risalire dal trauma, essere notato dai vivi e avere così le prove per dichiararsi a propria volta vivo.

 L’ironia foderata di tragedia riveste ogni azione dei due giovani  soprattutto nelle “ prove di morte” che compiono un po’ per esorcismo e un po’ per gioco, ispirate ai melò dei classici romantici. Prove di assenza, costretti a vivere il presente, ogni gesto, espressione o oggetto rivela una propria preziosa importanza. Van Sant pennella momenti di poesia sulla quale aleggia lo spettro del nulla e riprende i due ragazzi senza concessioni al campo lungo. Inchiodati da una focale senza profondità di campo che li comprime al resto dell’ambiente, Enoch e Annabelle, un po’ Harold e un po’ Maude, traggono vita del momento che vivono, il futuro del loro rapporto è compromesso ma riescono a comprimere la felicità di una vita nel breve volgere di qualche mese.  Il regista isola i personaggi nel loro spazio come esseri unici e fragili,  mai giudicati ma compresi nelle incertezze e nelle bizzarrie un po’ surreali alle quali si abbandonano.  Un umorismo sottile pervade la pellicola, sdrammatizzante il languore romantico che sottolinea l’accettazione della fine come un fatto essenziale della vita.  Una piccola storia, dolce e commovente che ha in sé qualcosa di universale. 

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