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Sanctum

Regia di Alister Grierson vedi scheda film

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La recensione su Sanctum

di Spaggy
8 stelle

Un gruppo di speleologi sub si trovano nelle viscere del più grande complesso di grotte al mondo, nel distretto dell’Esa’ala, in Papua Nuova Guinea. La missione ha un duplice motivo: rispondere alla chiamata di un produttore che vuole a tutti i costi finire sulla copertina del National Geographic e trovare il passaggio che permette all’acqua piovana che confluisce nelle grotte di arrivare all’Oceano Pacifico.
A capo della spedizione troviamo Frank, l’esploratore più esperto al mondo, tanto da essere paragonato a Cristoforo Colombo da George, il membro del gruppo che cura gli aspetti tecnicovisivi dell’impresa. Ad aiutare Frank concorrono tecnologie all’avanguardia ed esseri umani, un misto di perfezione scientifica e caducità umana, razionalità e irrazionalità.
Frank non ha un ottimo rapporto con il figlio Josh, un “tardo adolescente” che non perdona al padre il suo distacco dalle cose terrene dopo la morte della madre. Il loro rapporto è conflittuale e pieno di parole non dette, frasi non pronunciate ed esperienze non condivise. Josh fa parte della crew sotterranea che segue Frank.
Tutto sembra filare liscio, tra rocce ripide e scalate sottomarine, tra immagini da documentario subacqueo e perlustrazioni di luoghi in cui l’essere umano non era mai entrato nei millenni passati. Fino a quando un banale incidente che porta la morte di una delle componenti della spedizione comincia a minare l’equilibrio psicologico di tutti. A rendere ancora più difficile il tutto arriva in anticipo una tempesta tropicale trasformatasi in ciclone che blocca gli speleologi nelle viscere della Terra: per evitare di morire annegati, hanno una sola soluzione. Il gruppo deve necessariamente cercare una nuova via d’uscita, provando a seguire il flusso e la corrente del fiume. Il percorso sarà accidentato e impervio e il ritorno alla luce del sole non sarà garantito per tutti.


Costruito su una logica da B-movie claustrofobico per via dell’ambientazione la cui oscurità sembra avviluppare anche le menti degli speleologi, il film procede con una struttura alquanto nota agli amanti dell’horror: un gruppo di esseri umani messo in difficoltà finirà attraverso i propri errori per sterminarsi e autoeliminarsi, seguendo uno schema abbastanza noto in cui l’uso della tridimensionalità è l’orpello estetico per nascondere le implicazioni filosofiche della sceneggiatura, sapiente nello spostare l’attenzione sul piano dell’avventura quasi sportiva.


Uno dopo l’altro, per accidentalità o per scelta, i nostri protagonisti troveranno la morte e nelle soluzioni adottate si rischia di imbattersi anche in scene sicuramente crude e violente che più che far sobbalzare dalla sedia faranno abbassare lo sguardo per via della trucida componente visiva che non ci viene risparmiata. È possibile vedere Judes annegare a causa dell’acqua che riempie la sua maschera o Victoria cascare da centinaia di metri di altezza nel tentativo di liberare i suoi capelli incastrati dal peso di un apparecchio tecnologico che le sta letteralmente strappando lo scalpo. Così come sovente l’uomo stesso si sostituisce anche alla volontà divina ponendo fine all’esistenza altrui (come forma di liberazione dal dolore, Frank non esista ad annegare un membro della spedizione dopo che questi si era spezzato ogni osso del corpo a causa di una caduta nel vuoto) o alla propria per non inficiare l’esito della salvezza (è il caso ad esempio di George che resosi conto di essere affetto da MDD, malattia da decompressione, sceglie di nascondersi in un punto oscuro della grotta per lasciarsi morire). Ed è questa la chiave di lettura del film, una volta spogliato dagli artifici scenici: il rapporto Vita/Morte che inesorabilmente diviene rapporto Natura/Scienza.


A sancire il tutto arriva poi una poesia recitata da Frank al figlio Josh in maniera apparentemente casuale, come ricordo della madre scomparsa. Si tratta dei primi versi del poemetto “A Vision of a Dream” che il poeta inglese Samuel Taylor Coleridge scrisse nel 1798 in onore dell’antico khan mongolo Kubilai Khan:
A Xanadù di  Kubla Khan é il volere
che sia eretta una dimora di piacere:
Dove Alfeo, il  sacro fiume, scorre
In caverne smisurate all’uomo
verso un mare senza sole.

 
Il poema di Coleridge procedendo per allegorie e metafore altro non era che una forte contrapposizione tra il valore della Vita e l’incombenza della Morte, in cui cupole di sole si contrappongono alle viscere delle grotte attraversate da un fiume che inesorabilmente riporta alla vita. Il problema è riuscire a trovare il passaggio, il momento in cui dal freddo della grotta si ritorna al caldo del sole, in un contesto da natura esotica e paesaggio incontaminato. Riportato sul piano del film, è possibile tratteggiare un parallelismo abbastanza evidente: la missione degli speleologi altro non è che un tentativo di limitazione della vita stessa, tentativo che finisce nel peggiore dei modi se non si ha la forza sia fisica sia morale per opporsi al freddo e raggiungere il sole: grotta fredda come simbolo di morte e sole caldo, calotte e campane d’aria da cui provengono fasci di luce ristoranti come simbolo di vita. E paradossalmente è la tecnologia e l’evolversi della scienza che portano l’uomo verso la morte anziché garantirgli futuro: la voglia di scoperta e di passaggio oltre i limiti del conosciuto, coadiuvata da mezzi ipertecnologici, telecamere d’avanguardia, fibre ottiche e computer non permette di andare oltre, la Natura si ribella e lo fa con i suoi mezzi. Pioggia e rocce, acqua e terra, bloccano gli istinti di predominazione umana, ne impongono i limiti, ne bloccano la supponenza. Non è un caso che il ritorno alla Vita, alla forza del fuoco e dell’aria, avvenga senza alcun ausilio: solo mani e naso, solo istinti e fabbisogni primari permettono all’uomo di andare oltre se stesso, di tralasciare gli interessi economici e di riscoprirsi dando il giusto valore anche ai rapporti interpersonali.


Ed è alla luce dei rapporti interpersonali che il film assume anche la connotazione di appartenenza al filone del dramma della coming of age, del passaggio dall’adolescenza alla maturità per il giovane Josh, unico sopravvissuto, che muta la sua personalità con un crescendo emotivo che lo porterà dall’osteggiare il padre al condividere con lui uno dei momenti più toccanti dell’intera storia, in cui la condivisione del dolore lascia lo spazio alla consapevolezza delle proprie possibilità e responsabilità, dove l’istinto di sopravvivenza cede il posto agli affetti, dove l’eutanasia forzata (o omicidio dovuto, a seconda delle prospettive) assume l’aspetto di un dolce regalo solo dopo averne capito il perché, solo dopo che la razionalità lascia il posto agli affetti, solo dopo che la testa torna ad essere controllata dal cuore.


E non importa che il film sia fatto di dialoghi forzati e gridati, è l’urlo delle anime intrappolate da concezioni rigide, è la disperazione di chi si rende conto che ogni propria convinzione sta andando a farsi benedire, è lo sfogo di chi sa che ogni privilegio scientifico è annullato, è la resa di fronte a ciò che non sa spiegarsi e che non sa valutare aprioristicamente, è la sconfitta di chi antepone l’interesse economico e la fama ad ogni sua azione.


Cameron, che produce il film e lo supervisiona, ancora una volta ritorna all’elemento acqua, congeniale come luogo di morte e di rinascita, come simbolo del cambiamento. Come la Rose che fuoriesce dalle gelide acque del Titanic e si reinventa, anche il giovane Josh nel suo ritorno alla luce del sole avrà bisogno di una nuova esistenza caratterizzata dall’abbandono degli stili di vita precedenti. L’acqua è stata ancora una volta elemento di purificazione e depurazione, l’acqua della Natura Matrigna si evolve in acqua della Natura Benigna, riportando Josh ad una posizione quasi embrionale, costringendolo a rivedere le sue concezioni sia scientifiche sia morali, regalandogli un nuovo mondo terreno dopo esser passato dall’altra faccia del pianeta Pandora, dopo aver sconfitto l’alien che gli aveva annebbiato vista e cuore.


È come se producendo questo film e prestando le telecamere e i mezzi usati per girare “Avatar”, Cameron avesse voluto porgere un invito a guardare ben oltre, a non fermarsi al piano visivo. È solo spogliando il film, depurandolo, che si arriva al nucleo centrale. È come se avesse voluto dire: “Riguardate “Avatar” con occhi differenti, abbandonate la tecnologia usata e scoprirete il vero valore dell’opera”: il progresso, la tridimensionalità, i mezzi tecnici non sempre garantiscono sopravvivenza, è l’uomo con la sua storia, con la sua forza, a far la differenza.

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