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I soliti idioti. Il film

Regia di Enrico Lando vedi scheda film

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La recensione su I soliti idioti. Il film

di LorCio
5 stelle

È il secondo film italiano dell’anno che deriva da una serie televisiva. L’altro era Boris, e non faccio fatica a laurearlo come uno dei migliori film dell’anno. I soliti idioti è uno strano prodotto di questo inizio millennio: un po’ sit com, un po’ show, un po’ varietà. Cresciuto grazie ad un fruttuoso passaparola soprattutto virtuale, a poco a poco è diventato un clamoroso oggetto di culto con scene da antologia della comicità sul filo pericoloso che separa il surreale dal pecoreccio e personaggi da urlo. Noi altri (e qui parlo deliberatamente a nome degli ammiratori) frequentiamo gli episodi da tempo, abbiamo mandato a memoria certi sketch ed aspettavano la trasposizione cinematografica più con curiosità che altro.

 

Mettendo in chiaro che è altamente rischioso portare una serie televisiva, specie comica, al cinema (linguaggi diversi, tempi diversi, esigenze diverse), il trasferimento sul grande schermo presenta, come logico, vantaggi e svantaggi: il coro dei personaggi si è ridotto (vengono fatte fuori esilaranti creature come i due frati o il bambino) per privilegiare determinate figure, probabilmente le poche capaci di reggere un film, per quanto in maniera frammentaria; il ritmo non sempre si tiene alto (la serie viveva di sketch brevi, il gonfiamento in alcune occasione stanca) ma nel complesso le situazioni hanno non di rado una forza notevole; certe cose, per quanto divertenti (i momenti musicali) sono forse un tantino posticce (nonostante la sorprendente blasfema apparizione di San Sebastiano con le sembianze del cellulare-dipendente gay Fabio); la storia non c’è, senza tanti giri di parole, c’è soltanto una spregiudicata e comicissima accozzaglia di sketch legati da un esile quanto funzionale filo logico. E così via, considerando pure che trattasi di opera prima (e quindi siamo indulgenti, su).

 

E però il film ha una vitalità nuova e diversa, che riesce a parlare della volgarità nostrana senza essere volgare (cosa che non riesce, tanto per dire, al pur bravo De Sica da una vita o giù di lì), con un occhio cinicamente sarcastico e beffardamente sociologico che raramente ci capita di vedere. Politicamente scorretto (c’è anche un momento che strizza l’occhio a certa commediaccia americana adolescenziale recente quando spunta una canna), indubbiamente e fieramente, scatenato ed irriverente, vissuto dall’eclettismo stupefacente dei suoi due protagonisti, Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio, che bagnano umilmente il naso ai Tognazzi e Gassman dei Mostri di Risi e allo stesso Gassman de Il mattatore, proponendo uno stile recitativo forse grezzo ma nobile, rozzo ma versatile, orgogliosamente legato ad una tradizione ricca e stimolante.

 

Ma il film è, mi verrebbe da dire naturalmente, dominato dalla colossale figura di Ruggero De Ceglie (un memorabile Mandelli dal trucco pesantissimo), un ricco morto di fame che si pone come maestro di vita del perfettino e secchioncello figlio Gianluca (da cui l’ormai memorabile “Dai cazzo!” entrato nel linguaggio comune), volgarissimo e spudorato, puttaniere ed arcaico, un incrocio tra i mostri dei succitati Ugo e Vittorio e l’Alberto Sordi de I nuovi mostri (l’inciviltà), Brevi amori a Palma di Majorca (lo zoppo) e In viaggio con papà (il rapporto col figlio) e Franco Califano (la fissazione del sesso: ha avuto una fantomatica relazione con Brigitte Bardot). Va da sé, ogni volta che entra in scena vien giù la sala.

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