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Hotel Rwanda

Regia di Terry George vedi scheda film

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La recensione su Hotel Rwanda

di ilcausticocinefilo
8 stelle

 

Una delle pagine più buie e devastanti della storia recente dell’Africa, continente vilipeso e martoriato, viene meritoriamente portata sullo schermo da George. E il suo è un film senza dubbio alcuno importante, stimolante, necessario, soprattutto agghiacciante e atterrante. Un vero pugno nello stomaco, com’è giusto che sia.

 

 

 

 

Ma, prima di tutto, gli antefatti e i fatti, in “breve”:

iniziamo col dire che, storicamente (nonostante la difficoltà di distinzione etnica tra le due tribù, pressoché improponibile) nella società ruandese una frattura e una demarcazione sempre più nette e profonde andarono determinandosi tra l’élite per la stragrande maggioranza composta da appartenenti Tutsi, e il resto della popolazione, invece in buona parte Hutu.

Ciò fu all’origine del movimento per l’emancipazione Hutu che cominciò pian piano a prender piede nel Paese nel Secondo Dopoguerra. Finché, nel 1957, fece la sua comparsa il cosiddetto Manifesto Bahutu, un documento redatto da alcuni accademici della maggioranza oppressa Hutu, che per la prima volta nella storia mise nero su bianco l’idea d’una separazione addirittura razziale tra le due tribù e, inoltre, chiese l’immediato trasferimento del potere in mani Hutu, in virtù della loro schiacciante maggioranza e storica sottomissione.

 

Poco ci volle perché queste neanche troppo sotterranee tensioni deflagrassero in conflitto aperto. Scoppiò la rivoluzione, nei primissimi anni ‘60 il re fu deposto e una repubblica a forte prevalenza Hutu dichiarata. Per i Tutsi ebbe inizio un esodo di massa verso i Paesi confinanti, al fine di sfuggire alle purghe Hutu. Tali esuli sin da subito si dettero a tramare per il proprio ritorno: formarono gruppi armati paramilitari (“inyenzi”) con l’obiettivo di lanciare continui attacchi terroristici in territorio ruandese, così da fiaccare la rivoluzione. Ottennero soltanto un’intensificazione delle uccisioni e un conseguente incremento esponenziale dell’esodo.

 

 

 

 

La repubblica in realtà decisamente autocratica, guidata dal presidente Kayibanda, si barcamenò in mezzo a molte difficoltà per il successivo decennio, fin quando non venne rovesciata da un colpo di stato militare nel 1973. A salire al potere fu Habyarimana. Lungo il corso del suo governo, le persecuzioni a danno dei Tutsi si allentarono. Tuttavia, quelle endemiche e antiche tensioni interne di cui sopra erano sempre lì a covare, appena sotto la superficie, e ripresero a montare.

 

Negli anni ‘80, difatti, un gruppo di rifugiati Tutsi in Uganda, guidati da Paul Kagame (l’attuale presidente del Ruanda), fondò il Fronte Patriottico Ruandese (FPR), diventato ben presto una vera e propria milizia pronta a dar battaglia per il ritorno in patria.

Le ostilità scoppiarono sul finire del 1990, quando il FPR invase il Nord del Ruanda. Fu l’inizio della guerra civile, la quale si protrasse sino agli accordi di Arusha del 1993, i quali garantivano al FPR una posizione nel governo di transizione cui nel frattempo Habyarimana aveva trasferito molti dei suoi poteri, prima detenuti da lui in persona in forma semi-dittatoriale.

Tuttavia, questi accordi, e la prospettiva d’un rientro al potere dei Tutsi che implicavano, non potevano essere in alcun modo tollerati dalle frange più estremiste di Hutu al potere (Habyarimana stesso finì per venir visto di cattivo occhio a causa della sua “eccessiva moderazione”).

Questi estremisti ferocemente anti-Tutsi sfruttarono perversamente il timore della popolazione Hutu per portare avanti la loro agenda razzista e intollerante, nota col nome di “Hutu Power”.

 

 

 

 

I Tutsi si trovarono ad essere visti per l’ennesima volta con grande sospetto (un pogrom in piena regola ebbe tra l’altro luogo nell’ottobre 1990, poco dopo lo scoppio della guerra, nella provincia di Gisenyi…). Nel ‘92 gli “intransigenti” diedero vita alla Coalizione per la difesa della repubblica (CDR), collegata al partito di governo ma, per l’appunto, rappresentante un’ala molto più estrema dello stesso. A seguito del cessate il fuoco, questi estremisti Hutu e i quadri dell’esercito presero a tramare alle spalle del presidente, tesi ad impedire l’applicazione degli accordi di Arusha.

Nel corso del 1992 portarono avanti diverse campagne di uccisioni sommarie di Tutsi. Nel gennaio 1993 fu compiuto un grave massacro che provocò la ripresa delle ostilità da parte del FPR (purtroppo, questa decisione del Fronte ebbe l’effetto di rinforzare il supporto popolare per gli estremisti Hutu).

 

Ecco che si formarono milizie come la Interahamwe e la Impuzamugambi che diedero inizio ad una serie di massacri per il Paese, forti dell’appoggio logistico dell’esercito ruandese, che le armò e addestrò, nonché talvolta di alcuni elementi francesi.

Arrivò il punto di non ritorno. Il 6 aprile 1994 il presidente Habyamirana venne assassinato in circostanze poco chiare, gli estremisti Hutu incolparono i Tutsi e la carneficina su larga scala venne scatenata.

A partire da questa data (6 aprile) fino alla metà di luglio circa, per più di tre mesi, tra l’inerzia e l’indifferenza del mondo intero, un numero imprecisato – tra le 800.000 e il milione – di persone furono brutalmente braccate casa per casa e trucidate senza pietà, spesse volte a colpi di machete, dai propri vicini, conoscenti, colleghi, forse addirittura “amici”. Indicibili le violenze perpetrate.

Tra le altre atrocità, almeno 500.000 donne Tutsi furono ripetutamente stuprate da membri delle milizie paramilitari, come parte d’un diabolico piano per diffondere il contagio da HIV. Non a caso, questo particolare genere di stupro di guerra, in quanto volto al totale annientamento – per diversa via – d’un intero gruppo etnico, è stato definito “genocidal rape” (“stupro genocidiale”).

 

 

 

 

Questi, come si diceva, i fatti. Parrà subito evidente come si tratti d’argomenti difficili da maneggiare, a forte rischio retorica o, peggio, sensazionalismo. Tuttavia, la benemerita opera di George evita tutte queste (e molte altre) trappole, e ci consegna uno spaccato duro e implacabile, ma mai ricattatorio né tantomeno declamatorio.

La tragedia di quanto avvenuto viene resa presente agli spettatori senza alcun bisogno di futili (e, in certo modo, inaccettabili) sottolineature gore e sanguinolente, ma anzi con una “delicatezza”, un rispetto, ma al contempo una lucidità e un’abilità, tutte da lodare (indimenticabile ad esempio, anche a lungo tempo dalla visione, la scena della strada lastricata di corpi avvolta nella nebbia).

 

Il film poi non si tira certo indietro quando si tratta di identificare chiaramente i responsabili e, in particolar modo, gli “ignavi”. Molti, infatti, per non dire tutti, si voltarono dall’altra parte: dalla Francia che non solo non si adoperò per fermare o quantomeno mitigare il massacro ma che anzi ebbe un ruolo fondamentale (non si sa quanto “inconsapevole”) nell’addestrare e armare le milizie, agli Stati Uniti che posero il veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Uniti, impedendo di fatto il riconoscimento del genocidio in corso, preoccupandosi più (come si evince da un’altra memorabile scena del film) di operare assurde distinzioni lessicali tra “atti di genocidio” e “genocidio” vero e proprio.

 

 

 

 

L’opera stupisce poi per la sua capacità di fondere mirabilmente storia individuale (di questa sorta di novello Schindler, ben interpretato da Cheadle) e contesto sociale generale del periodo.

Hotel Rwanda è insomma film pregnante, significativo e da non perdere, inevitabilmente in grado di suscitare riflessione. Una cronaca appassionata e illuminante d’un evento forse ancora oggi poco noto qui da noi; in definitiva un’opera toccante e di grande impatto, che non può in alcun modo lasciare indifferenti. Evita, ribadiamolo, ogni facile melensaggine e sensazionalismo, bilancia perfettamente denuncia e pura suspense cinematografica. Inutile proseguire oltre: è un film in una parola necessario, e avrebbe meritato maggiori fortune.

 

 

 

 

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