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Quo vadis, baby?

Regia di Gabriele Salvatores vedi scheda film

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La recensione su Quo vadis, baby?

di lao
4 stelle

L’ASSASSINO NON E’ IL MAGGIORDOMO? ----“Quo vadis, baby” è l’ultimo frutto del lavoro di ricerca e sperimentazione nell’ambito della Settima Arte di Salvatores. Infatti il film, formalmente un thriller ispirato al romanzo della Verasini, è opera aperta, nel senso che si sdoppia, si integra e si conclude in altri film, riprodotti all’interno di uno schermo televisivo collocato nel bel mezzo di un appartamento borghese, nel salotto di casa, tradizionale scenario dei conflitti e dei drammi familiari. La struttura labirintica del noir, rispecchiata anche dalla ripetitività ossessiva del paesaggio urbano, denuncia da subito l’impossibilità di arrivare alla soluzione dell’enigma e l’ambiguità illusoria di qualunque nostra convinzione. La rifrazione del fatto oggetto di indagine nello spazio e nel tempo sottintende l’assurda pretesa della ragione umana di riuscire ad avere una conoscenza definitiva della realtà: la verità è una bugia non ancora svelata. Il cinema, il metaforico manifesto su cui si staglia l’ombra di M. il maniaco infanticida di Dusserdolf, la creatura immaginaria di Fritz Lang emblema della natura umana e dei suoi demoni interiori, riproduce la vita, ma non ne restituisce che le ombre, riflessi instabili e fugaci di un mondo di apparizioni precarie. Gli stessi luoghi dove viviamo alieni in mezzo ad altri alieni sono privi di angoli rassicuranti. La Bologna notturna di Salvatores è una significativa reminiscenza della Roma o della Torino di Dario Argento, un labirinto di vicoli, illuminato dal chiarore estraniante dei lampioni, animato da minacciose presenze. E’ una geografia delle inquietudini dell’anima, dove la normalità è conforto momentaneo:”la normalità è bella”- dice l’amante alla protagonista, ma la pace dell’alcova e dell’eros è gioia ingannevole e nessuno mostra mai alla luce il suo vero volto. C’è un assassino? Chi è? Dobbiamo credere a quello che ci viene raccontato e mostrato nel finale o al video vuoto aperto sul nulla? Suggestioni, echi, citazioni meditate, immagini allusive, atmosfere sono la cifra di una regia abile nell’orchestrare i dettagli di un universo oscuro e tormentato, i cui eroi annaspano in una tortuosa ricerca di sé fra scoperte inaccettabili. Quello che però delude nel lungometraggio è proprio lo spessore drammatico dei personaggi e l’esilità del loro vissuto: il cuore della vicenda, i conflitti all’interno di un nucleo familiare dominato da una figura paterna ingombrante e devastato dalla morte della madre e dal suicidio di uno delle due figlie, si esprime in dialoghi e quadri inconsistenti, non incuriosisce e non affascina, le figurine di contorno, il collaboratore gay della protagonista o il cliente tradito dalla moglie, sono risolte in scialbe macchiette, piatta conferma dell’assunto centrale sull’inconoscibilità di chi ci vive accanto. La bipolarità fra Ada, la fragile e frustrata aspirante attrice, e sua sorella Giorgia, la dura e solitaria investigatrice privata, ha forse le sue radici in un punto imprecisato del loro passato, su cui la pellicola tace, determinando il totale svuotamento di una componente fondamentale del movente dell’azione. Così la ruvida interpretazione della Varaldi costituisce una godibile variazione sulla tipologia del detective cinico e politicamente scorretto, paragonabile a quella della Buy in “Il siero della vanità” di Infascelli, ma non porta pesi sulle spalle. “Quo vadis, baby?”! Del resto Salvatores lo chiede più a se stesso che ai suoi personaggi.

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