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Exit Through the Gift Shop

Regia di Bansky vedi scheda film

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Marcello del Campo

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La recensione su Exit Through the Gift Shop

di Marcello del Campo
8 stelle

 

 Tonight the streets are ours, questa notte siamo noi le strade. Richard Hawley non l’ha composta per i graffitisti, è una canzone sentimentale, ma Banksy (o chi ha davvero diretto il film) la inserisce come colonna sonora di una storia più lontana nel tempo, quando lui era ancora in fasce. Del genio del Vandalismo, - della sua persona, maschera, fisiognomia, voce, - si sa poco, una leggenda dell’arte moderna di strade non può esporsi così facilmente in pubblico, perché è un artista ‘ricercato’ anche nel senso petroliniano, ricercato nelle modalità di assalto al sistema con le armi delle pratiche sovversive, ricercato dagli organi del potere che lui contrasta con l’agilità di un Raffles dello stencil, del collage rivoluzionario, dei pannelli monumentali alti come grattacieli, delle cabine telefoniche tagliate a metà con  il flex e rimontate sghembe: roba che i galleristi di tutto il mondo hanno acquistato, anche Sean Penn e altri divi hanno fatto la fila di due ore per vedere il padiglione-Bansky, a Los Angeles.

La storia inizia prima del film e qualcosa devo raccontarla, perché Banksy e Brainwash [di quest’ultimo parlerò dopo] non hanno inventato nulla, hanno proseguito con nuove armi e nuovi mezzi ciò che altri artisti avevano cominciato a produrre venti anni prima.

 

Exit Through the Gift Shop (2010): Clip 1 Originale | I primi 5 minuti

1971. […] la vernice spray inaugura l'era delle style wars o guerre di stile, per il predominio d’intervenire sulle linee della metropolitana, nei depositi ferroviari, che hanno fatto conoscere il fenomeno del writing così come oggi noi lo conosciamo. […] Nei primi pitto-scrittori di strada non vi era la consapevolezza di porre un significato compiuto a ciò che stavano facendo; dipingere per loro era un modo di essere lì in quel momento: il subway e il Nome (scelto e non imposto) divennero il mezzo della loro emancipazione. Una spinta a emergere che i writers chiamano getting up, e che incarna ancora oggi il senso di sfida attorno a cui ruota il concetto di rispetto tra i writers, misurato non sui valori economici - come la competizione di stampo produttivista impone - ma sullo stile, concentrato di creatività, capacità e comportamento. Il Nome rappresenta ciò che Norman Mailer definì nel 1974 the faith of graffiti: scegliendo un Nome ogni writer mette in scena se stesso secondo l'identità a lui più congeniale; le mura, i vagoni della metro e le superfici della città sono deputati al dialogo o al conflitto, i luoghi ove si consolidano o si compromettono ogni volta rapporti di solidarietà e/o di ostilità reciproca.” [Valerio Dehò, Words, MAT Edizioni, 2010]

 

Tra la fine dei Sessanta e i primi Settanta nasce l’arte di lasciare tracce di linguaggio murale, ferroviario, dovunque si possa verniciare spray: sono i graffitisti, l’ultima generazione del popolo delle caverne kubrickiane, al pari della scimmia sono capaci di slanci pacifisti, niente femori che si trasformano in armi improprie. Decorano “le caverne della contemporaneità, gli spazi negati alla vita, in antitesi alle cattedrali dell’arte e del luxury shopping. Chiamata anche spray can art o aerosol art questa forma di espressione giovanile è esplosa nel Bronx e in altri quartieri ghetto a maggioranza nera o portoricana. Quando i primi writers hanno cominciato a elaborare il proprio nome o soprannome come Coco 144 oppure Lee 163d, hanno pensato di “firmare” gli spazi metropolitani per comunicare e prenderne possesso. Arte per tutti e da tutti. Niente gallerie, niente spazi istituzionali, niente mercato. Un modo di fare un’arte di massa, nel senso che non conosce nessun vincolo e nessuna mediazione: i critici sono inutili, come i curatori e i direttori dei musei. Si producono da allora opere invendibili anche se oggi il mercato si è ampiamente rifatto creando dei fenomeni come Banksy. L’arte del graffito risponde a un’esigenza di bellezza urbana e anche a una contrapposizione tra l’arte dei bianchi, minimalista e per bene, infiocchettata e pronta per il consumo, e un’arte “nera” colorata e caotica, cromaticamente aggressiva, ma sempre legata alla vita, ai sogni di chi si sente un dropout e vuole cambiare la propria esistenza o per lo meno darle una dimensione da eroe della strada. Non a caso la polizia è stata sempre il nemico giurato dei writers e continua a esserlo.” [Valerio Dehò, op.cit.] Il fenomeno artistico va di pari passo con quello musicale: l’hip hop, il rap, rap, la break dance accompagnano l’opera descrittiva con geniali ‘parolieri’ che allora erano Afrika Bambaataa, Phase 2, oggi Antipop Consortium, Clouddead, DoseOne.

La fase prodromica nasce a Parigi, meglio, trova nella capitale del XX secolo quella libertà oggi negata dal governo reazionario in carica e in cariche (di polizia). Gli artisti simbolo sono Keith Haring e Jean-Michel Basquiat. [attenzione! Il pessimo Basquiat di Julian Schnabel è cinema di rozzo profilo come quasi tutto il cinema sull’arte e sugli artisti]

 

Exit Through The Gift Shop fa eccezione: ritengo che sia l’unico film che mette in scena una vicenda dell’arte moderna, che sia un capolavoro, questo può dirlo solo chi segue il fermentare dell’arte di strada, il pullulare di immagini stipate sui muri delle metropoli, segni di una disobbedienza civile dura da reprimere. Solo il film Beautiful Losers può stargli alla pari: diretto da Aaron Rose, per dieci anni (1992-2002) proprietario e direttore della Presunta Gallery di New York, fu l’uomo che lanciò artisti come Jean-Michel Basquiat, Larry Clark, Robert Crumb, Keith Haring.    

 

EXIT THROUGH THE GIFT SHOP

 

Il film diretto da Banksy non è un film su Banksy.

Banksy dirige un film che narra l’incontro fatale con un personaggio bizzarro, un giovane immigrato francese di nome Thierry Guetta.

È lo stesso Banksy a raccontare, durante un’intervista in cui appare ‘invisibile’ sotto un enorme cappuccio nero, l’irresistibile ascesa di Thierry Guetta da fanatico ossessivo-compulsivo fotografo a astro della Street Art con il nome di Brainwash.   

Il film racconta la storia di Thierry Guetta, l’uomo che tenta, senza riuscirci di un documentario su Banksy. Questo tipo, Thierry Guetta, è un francese che vive a Los Angeles da quando era emigrato negli Stati Uniti all'inizio degli anni 80. Un normale padre di famiglia, Thierry ha un negozio di vestiti vintage nel quartiere commerciale più bohemien della città e riesce a sbarcare il lunario vendendo le sue cose agli abitanti di Los Angeles per i quali la moda era cultura.

Guetta si arrangia, compra abbigliamento Adidas usato, cose tipo scarpe, borse e ha un magazzino pieno di roba che compra a 50 dollari e le fa passare per prodotti di design, rivendendole a 400 dollari.

Thierry ha, inoltre, un'abitudine molto particolare: non va da nessuna parte senza la sua videocamera, - una droga, un'ossessione. Filma in continuazione, filma se stesso che filma, filma sua moglie in cucina, i bambini a letto, non smette mai; un invasato della videocamera, registra nastri su nastri, filmava per strada i passanti, i negozianti, non si occupava d’altro. La moglie Debora cerca di portarlo con i piedi per terra, ma il mercuriale Thierry vende abiti e filma, fino a quando nel 1999, durante una vacanza di famiglia in Francia, un caso fortuito cambia completamente la sua vita. Suo cugino si dedica all'arte, compone dei mosaici del videogioco Space Invaders, ricreando i personaggi e li mette in alto sui palazzi, per la strada in modo che la gente possa vederli.

Il cugino di Thierry, Space Invader, è uno dei protagonisti di del nuovo movimento che si sarebbe chiamato Street Art, una forma ibrida di graffiti sbandierata da una generazione che usava adesivi, stencil, poster e sculture per lasciare la sua impronta con tutti i mezzi possibili per poter essere viste da milioni di spettatori con l’avvento di Internet. Thierry si appassiona all’arte del cugino ma all’inizio si limita a dargli una mano a ‘esporre’ le sue opere e continua a fotografare sempre di più. In un certo senso si sente artista anche lui. Conosce altri amici di Space Invaders, conosce Zeus, che disegna ombre sulla strada, ammira il ‘museo all’aperto’ di notte, conosce la paura e il rischio… è la vita da flaneur che lo appassiona. L'uomo che filma tutto si ritrova in questo intrigante mondo sotterraneo.

Qualche settimana dopo, Invader visita Los Angeles per la prima volta dando a Thierry la possibilità di coltivare la sua passione nella sua città. L'opportunità per Thierry di filmare qualcuno di più eccitante arriva qualche giorno dopo, quando Invader si mette d'accordo per incontrare un altro street artist della costa ovest, Shepard Fairey chedeve la sua celebrità per aver trasformato la faccia dell’allora senatore sconosciuto Barack Obama in un'icona famosa in tutto il mondo.

Quando Invader tornò in Francia, Thierry rimane al fianco di Shepard ovunque quello vada, facendo il palo nelle attività artistiche notturne dell’amico e fotografando tutto come al solito. Thierry ha in mente di utilizzare il materiale iconografico per fare un documentario sulla Street Art. Ma l'obiettivo della sua camera non è solo Shepard. Thierry vuole conoscere altri artisti della street art. Ha sentito parlare di un certo Banksy, vuole conoscerlo. E non è il solo, a quel tempo, le numerose avventure di questo ambizioso provocatore erano arrivate molto oltre l'ambiente della street art. Banksy aveva iniziato come graffitaro di provincia, ma presto i suoi stencil sarebbero comparsi in tutta l'Inghilterra attraverso mostre "fai da te". Banksy stava portando il vandalismo in una nuova direzione. Thierry chiede a Invader e a tutti quelli che conosce dove può trovare Banksy. ‘Impossibile!’ è la risposta.

Nonostante Thierry abbia messo in giro la voce che il materiale raccolto servirà a fare un film sulla Street Art, in realtà le cose stanno diversamente: Thierry ha una stanza piena di foto, cassette, documenti che non ha mai classificato, impossibile visionare e mettere insieme qualcosa da quell’orgia di filmati, alcuni dei quali risalgono alla sua infanzia, in Francia. La mania di fotografare dell’uomo ha un’origine drammatica: sua madre è morta quando lui aveva undici anni. Quando l'ha saputo era a scuola e quando è tornato in classe piangeva, non capiva, gli avevano portato via tutto e allontanato da tutto. Lo portarono lontano, da un cugino. Al piccolo Thierry era stata nascosta la malattia della madre e dopo la sua morte, la sensazione di aver perduto delle cose importanti lo accompagnò sempre. In seguito, da adulto come padre di famiglia, Thierry sentiva il bisogno di filmare le persone e le cose intorno a lui. Sentiva che dovevo registrare tutto, che le cose registrate in un certo momento, in qualsiasi momento della vita, non le avrebbe più riviste in quello stesso modo. Era il bisogno di registrare per fare in modo che quei momenti fossero eterni. Fare un documentario era il modo per conoscere quelle persone, perciò andava sempre in giro per conoscere nuovi artisti.

Il caso gli fa incontrare l’artista che lo avrebbe impressionato come nessuno, l'artista sovversivo dei graffiti BANKSY, l’artista che ha trasformato il vandalismo di strada in un evento internazionale da prima pagina.

Chi è Banksy? Le sue opere sono ovunque, ma l'artista è schivo, invisibile, non ha telefono.

La fortuna è dalla parte del francese: nella primavera del 2006 va a Los Angeles e  Shepard Fairey gli telefona: Bansky è con lui. Thierry si precipita e finalmente incontra l’artista agognato.

Il sodalizio tra Thierry e Bansky è destinato a diventare leggendario perché, attraverso alterne vicende, che il film documenta con dovizia di immagini e resoconti dalla viva voce dei protagonisti, Thierry diventerà famoso e ricco come Banksy e grazie a Banksy: Brainwash, da fotografo ossessivo a street artist alla moda.    

Brainwash è una creatura di Bansky: il secondo ha scosso il mondo nel 2005 entrando nella West Bank realizzando murales provocatori contro l’apartheid imposto da Israele ai palestinesi, poi nei territori occupati con opere che hanno lasciato il segno; il primo è riuscito a vendere in aste milionarie molto ciarpame, in fondo ha messo a frutto il mestiere da cui era partito, trasformare roba usata in nuovo design.

Banksy ha tradotto in arte ‘legale’ l’arte sovversiva degli inizi, Brainwash ha sovvertito solo l’ordine familiare donando a Debora una vita agiata.

L’idea di Thierry-Brainwash che il Potere mediatico sottoponga tutti al lavaggio del cervello, è servita a produrre un’arte che è essa stessa brainwashing.

 

Ciò che dicono, nel finale del film, altri artisti, amici di Thierry, è sintomatico.

Presentarsi come un artista già formato pronto ad andare in scena, penso sia stato un po' prematuro. Un artista non lo puoi conoscere in una sola mostra, e decidere chi è... o se copia Bansky... o se copia Shepard Fairey... o se copia... C'è bisogno di tempo.”

Penso che tutto il fenomeno Thierry, la sua ossessione per la street art, diventare un artista, un mucchio di idioti che vanno al suo show, e comprano le sue opere e lui che le vende a cifre altissime molto velocemente... è antropologicamente e socialmente affascinante da analizzare e magari possiamo imparare qualcosa. Non so cosa voglia dire il successo di Thierry nel mondo dell'arte, forse Thierry è un genio. O forse ha avuto fortuna... O forse l'arte non è una cosa seria.”

E Banksy: “Che Thierry abbia avuto successo è incredibile. Ma, sai, è come... io penso che a volte il lato comico è... non so dov'è il lato comico... non so se c'è davvero un lato comico. Non penso che Thierry si sia attenuto alle regole, ma d'altronde non ci sono regole da seguire per essere artista. Quindi non saprei. Ho sempre incoraggiato la gente che conoscevo a produrre arte, pensavo che tutti dovessero farlo. Ora non lo faccio più così tanto.”

 

In fondo, alla stessa conclusione arriva Valerio Dehò:

 

Oggi le strade sono ancora aperte e ancora senza nome, come nella celebre canzone degli U2. I ribelli sono stati sepolti e idolatrati da un mercato che non attende altro che nuovi eroi da sfruttare. Restano e avanzano le opere di strada, che oggi continuano a vivere nella “Street Art”, un fenomeno che ormai globalizza l’esperienza artistica senza pretese di gradi d’importanza o artificiose distinzioni tra i vari piani alti e bassi della cultura. Nessun linguaggio è veramente codificato.”

 

Intanto Mr. Brainwash continua a mietere successi: di recente ha creato la copertina del Greatest Hits di Madonna

 

 

 

La colonna sonora

Due firme comme il faut: Geoff Barrow (Massive Attack): organizzazione del suono e Roni Size soundtrack

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