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Il gioiellino

Regia di Andrea Molaioli vedi scheda film

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La recensione su Il gioiellino

di LorCio
8 stelle

C’è una scena ne Il gioiellino che fa capire molto: l’industriale Amanzio Rastelli, con un piede nella fossa, che si ritrova ad elemosinare la salvezza improbabile della propria azienda a certi uomini, tirando in ballo il fatto che un padre per un figlio farebbe qualunque cosa. Negli occhi degli interlocutori cerca una disperata approvazione, bramando col patetismo che solo chi non si rassegna di aver fallito sa sfoderare: la risposta è negativa, e da qui parte l’ordine di distruggere tutto. Rastelli è la dimostrazione di come il capitalismo italiano non sia mai riuscito ad essere tale per mancanza di coraggio, temperamento, indole, proponendosi sempre e solo come la provincia che aspira a qualcosa di più grande rispetto a ciò che davvero è e può essere. Non è un caso che sempre in quella scena Rastelli faccia riferimento alla Fiat e alla Telecom, cioè le due principali aziende italiane, entrambe sull’orlo del fallimento: è tutto un sistema ad essere malato, dal momento in cui la finanza creativa ha preso il posto dell’economia reale. Il linguaggio finanziario, francamente incomprensibile, è proprio così oscuro per accentuare la sua inquietante indecifrabilità, come se fosse un linguaggio proibito. Chi ne capisce i meccanismi, ma senza avere l’eroismo di andare fino in fondo con la denuncia, si uccide di sensi di colpa e fa una brutta fine. Al centro del secondo film del buon Andrea Molaioli (in cui si sente il marchio di fabbrica della Indigo di Cima e Giuliano, produttori de Il divo a cui questo film si collega non poco, sia narrativamente per quanto concerne la riflessione sul potere – in questo caso economico – che stilisticamente nelle invenzioni di regia tutt’altro che convenzionali) c’è la distruzione della favola degli uomini che si sono fatti da soli (come si evince dall’aneddoto su Rockefeller che l’ambiguo ragionier Botta racconta alla nipote di Rastelli, ossia colei che diventerà la sua amante), ritrovatisi senza soldi e con l’unica idea di inventarseli, fregandosene del resto del mondo: gli interessi stanno nel detenere una maggioranza inutile quanto narcisista (Rastelli) e nell’ossessione di gestire ogni cosa nel migliore dei modi pur di non far notare le proprie mancanze di studio (Botta). Per quanto diversi (Rastelli è uno che ha trasformato un salumificio in una industria internazionale, si è comprato una squadra di calcio che ha affidato all’arrogante figlio, che parla come se ogni cosa fosse un giocattolino e un gioiellino e si fida solo del suo Ernestino; che sarebbe il ragionier Botta, seguace della setta del lavoro e della vita senza scrupoli), sono i due rappresentanti estremi del non-capitalismo italiano, che giocano d’azzardo e tirano avanti la partita fino a notte fonda pur di non far vedere mai le proprie carte agli avversari. “Non abbiamo più amici” ammette amaro Rastelli, ed infatti c’è la terra bruciata attorno. L’affinità col colossale crack della Parmalat è evidente, nonostante il necessario tono romanzesco, ma è vero che il gioco delle somiglianze finisce quasi subito: Il gioiellino è un film molesto ma giusto sul crollo di una non-idea, è la denudazione della provincia (così come, seppure con ambizioni e con obiettivi ben diversi, La ragazza del lago) che si spoglia angosciosamente della propria megalomania: il tutto è raccontato con una essenzialità disarmante, scarno nel suo rigore mai rigido, attento (la sceneggiatura che dimostra una grande dimestichezza nel trattare fatti tutt’altro che semplici) e curatissimo (il comparto pubblicitario della Leda all’interno della storia) filtrato attraverso immagini fredde e in un certo senso crude, sottolineate dalla nebulosa fotografia di Luca Bigazzi e dall’incessante commento di Teho Teardo (non a caso già musicista de Il divo), vissuto da un agghiacciante Toni Servillo, da una precisa Sarah Felberbaum e da uno splendido Remo Girone (nel miglior ruolo che gli sia mai capitato sul grande schermo).

Cosa cambierei

Voto: 8.

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